4 giugno 2022 h 17.15
Cinema Spazio Alfieri Firenze – via dell’Ulivo, 6

Firenze, piazza dei Ciompi, non lontano da via dell’Ulivo, dove si trova il cinema Spazio Alfieri.
All’uscita dal cinema, dove avevo visto Marcel! di Jasmine Trinca, volevo passare dal negozio che si vede nella foto: “Cose vecchie – Compro mobili e oggetti” per offrirmi come roba vecchia. Non l’ho fatto perché il proprietario stava abbassando la saracinesca. Non ho fatto in tempo.
Qual è il motivo che mi ha spinto verso questa scelta (mettermi tra la roba vecchia in quel negozio)?
In sala avevo incontrato  una giovane conoscente, insegnante in una scuola superiore. Rivedendola alla fine del film, le ho chiesto: «Che ne pensi? Io mi sono annoiato».
Risposta: «A me è piaciuto moltissimo, mi è sembrato un film poetico, lo proporrò ai miei alunni come esempio di poesia nel cinema».

Non le ho chiesto: «Non ti sembra il caso di proporre ai tuoi alunni, come esempio di poesia nel cinema, i film di Charlie Chaplin?». Può darsi che lo faccia, ma mi sono trattenuto dal chiederglielo. Istintivamente ho evitato di sommare a un giudizio non condiviso un attacco polemico.
Mi è venuto un dubbio: forse sono troppo ignorante, o troppo prosastico, o, semplicemente, troppo vecchio per capire questo genere di poesia.
Troppo ignorante: non avevo capito, me l’ha spiegato la professoressa, da dove venissero le frasi incomprensibili che introducono i vari capitoli del film: sono i Chakra. Me l’ha raccontato senza spiegarmi che cosa sono i Chakra, perché ho finto di capire (affermando che mi ero annoiato mi ero già messo in una posizione difficile).
Esattamente come quelli che si precipiteranno su Wikipedia quando leggeranno questa parola, mi sono riproposto di farlo non appena fossi rientrato in casa. Per cercare di capire.
Ora l’ho fatto: ho letto che i chakra (non so se bisogna metterci la maiuscola) sono concentrati di energia, se ho capito bene (mi sono fermato alla prima definizione). Si trovano, secondo la tecnica yoga, in determinati punti e organi del corpo, sui quali si può agire per influire sulla salute e, in generale, sull’armonia. Credo che definire lo yoga una tecnica mi ponga automaticamente tra gli estranei a questi concetti, per cui è meglio non insistere su un argomento che non ho voglia di approfondire.
Per fare un esempio che non ha nulla a che fare con questo discorso: quando i testimoni di Geova o i seguaci di sette e partiti politici alternativi mi propongono, per strada, di leggere un librettino, un volantino, un pezzo di carta dove si trova, secondo loro, la spiegazione che certamente mi porterà alla conoscenza e/o alla salvezza, mi rifiuto di leggere o di avviare una discussione.
Non ci vorrebbe niente, ma proprio perché non ci vorrebbe niente, perché è troppo facile, preferisco perdere l’occasione di salvarmi o di scoprire l’ideologia che spiega tutto: la fine del mondo, il covid, la guerra in Ucraina, il caso Moro, il successo dei Maneskin.
Ecco perché mi sono fermato alla prima spiegazione del termine chakra trovata su Wikipedia e non ho avuto la voglia di cercarne altre. Approfondisco le cose che piacciono a me.
Intanto, però, non ho ancora capito il significato di quelle frasi (tra l’altro non le ho davanti) e mi sembra che questa spiegazione non sia di aiuto.
Vuoi vedere, mi sono detto, che anche la professoressa non le ha capite? Vuoi vedere che se l’è cavata con un rimando generico, avendo compreso la mia completa ignoranza dell’argomento?
È una cosa che si fa quando si parte da un pregiudizio positivo (questo film deve piacermi). Anch’io potrei avere un pregiudizio, ma negativo, che mi ha condizionato.
Onestamente non mi sembra; anzi: apprezzo molto Jasmine Trinca come attrice e mi piace come persona.
Ora che ci penso, la professoressa ha detto: «Sono i chakra», con lo stesso tono che avrebbe assunto per spiegare a un forestiero: «Quello? È un negozio di lampredotto», e ha aggiunto: «Infatti la madre della protagonista usa il pendolo per parlare con il cane defunto».
«Infatti» ha detto. Me lo ricordo benissimo.
E io che avevo pensato a un trucco cinematografico! Sono proprio arretrato!
A parte le frasi e gli eventuali chakra (qualunque cosa siano), il fatto più importante è che il film non mi è sembrato poetico.
Mi è sembrato deprimente il frigorifero quasi vuoto, inquadrato dal di dentro, contenente una bottiglia d’acqua e una confezione di gelato che la triste bambina (non ride mai) mette in tavola per pranzare insieme alla madre. La madre non si preoccupa di alzarsi e aprire lo sportello del frigorifero.

Nel frigorifero ci sono anche due carote che la signora vestita di una tunica colorata (sempre la stessa tunica per tutto il film) propina al povero cane: «mangia le carotine, che ti fanno bene!». Invano il cane allontana il muso. La signora implacabile: «mangia le carotine, che ti fanno bene!».
In alternativa si pranza (per modo di dire) con un brodo assai leggero (praticamente acqua calda) e con un intruglio informe che si attacca al cucchiaio e fa esclamare alla signora, in piena crisi dovuta all’assenza del cane (non che prima fosse meno in crisi o più allegra): «a Marcel piaceva la carnina!». Marcel è il cane, che, se avesse potuto rispondere dall’altro mondo con il pendolo, avrebbe detto: «sai che mi piaceva la carne e mi davi le carote. Disgraziata!».

Trovo odioso questo modo di parlare verso cani che sono piccoli di dimensioni ma forse di età adulta (le carotine, la carnina), questo modo zuccheroso di esprimere affetto, verso gli umani o verso i cani, specialmente se si associa a baci sul muso che non credo siano di loro gradimento (probabilmente preferirebbero annusare altri fori). Umanizzare i cani è una forma di violenza di cui dovrebbero occuparsi le associazioni che proteggono gli animali.

Marcel è il cagnolino che fa da spalla in una pantomima (sempre la stessa) che la madre della triste ragazzina ripete in strada davanti a pochi spettatori, alcuni dei quali, alla fine, lanciano le monetine sbagliando spesso la mira (di solito le monete si depositano in un cappello o nella custodia di uno strumento musicale).
Non solo mi sfugge la poesia dei chakra, ma anche la poesia della pantomima e di quel letto in cui la bambina giace, accudita dalla nonna, che si limita a pettinarla e ad accarezzarle le gambe che la bambina incrocia, osserva la nonna, come le incrociava il defunto genitore (della bambina), figlio (della nonna).
Oltre a questo, la nonna è l’unica che si diverte (ogni tanto), ballando insieme ad altri vecchietti, tra cui il nonno, che passa il suo tempo fumando e impegnandosi in lunghi solitari, nella stessa stanza, sembra, in cui la bambina giace nel suo triste letto.

Poi c’è il cagnolino, che non fa niente di particolare nella esibizione in strada: corre avanti e indietro nel corso della pantomima e, finalmente, si libera dalle grinfie della padrona che lo costringeva a mangiare le carote. Seguendo la sua natura, libera, spensierata e amante degli odori forti, il cagnolino si rifugia dietro al contenitore dell’immondizia.
Senonché la ragazzina lo scopre (quando va a buttare la spazzatura) e, anziché riportarlo sotto le grinfie amorose della madre, lo ammazza, facendolo precipitare da una certa altezza (non si vede ma s’indovina). Perché lo fa? Per liberarlo dall’oppressione della madre? Il cagnolino si era già liberato per conto suo. Sarebbe bastato non rivelare la scoperta e portargli un po’ di “carnina” ogni tanto, vicino al contenitore della monnezza. La bambina lo ammazza perché è gelosa dell’affetto che la madre gli ha riversato sopra, poveretto, sottraendolo a lei.

Una storia poetica (così dice la professoressa) che cambia genere cinematografico nel corso della narrazione, diventa horror quando la bambina scopre che la madre ha nascosto, nella valigia che ha sempre con sé, il cadavere, probabilmente in via di decomposizione, del cane, cadavere che un amico (l’unico entusiasta delle sue pantomime) le ha riportato.
L’horror prosegue con le scene in cui la madre fa indossare alla bambina una pelliccia del tutto simile a quella appartenuta al cane defunto (non voglio credere che sia la stessa).
Quest’artista di una sola pantomima non può fare a meno del suo unico infelice compagno e lo sostituisce con la figlia.
Più avanti si esibirà, anche in un teatro, in altri modi, ma sembra di vedere sempre la stessa cosa, gli stessi gesti, gli stessi contorcimenti (ho letto che ci sarebbe un riferimento a Marcel Marceau, ma credo che il grande mimo, se venisse a saperlo, farebbe oscillare molto il pendolo). 

Nel corso di un trasferimento verso il posto nel quale si svolgerà un festival del teatro di strada, ci ritroviamo in una villa abitata da gente pericolosa. A quel punto mi ero stufato completamente e non vedevo l’ora che si arrivasse alla fine. L’unica nota allegra: due giovani imitatori di Albano e Romina cantano “Ci sarà…”, mentre l’artista, inutilmente, cerca di fermarli. Forse crede che l’arte sia solo la sua.

Peccato per due grandi attori, Giovanna Ralli e Umberto Orsini, che non si capisce che cosa facciano in questo film. Almeno non l’ho capito io, che, l’ho detto all’inizio, sono ignorante, prosastico e, soprattutto, vecchio.

La professoressa, tra le altre cose, ha detto che la storia raccontata sarebbe personale. Sì, ma io, da spettatore, valuto il film, non la storia che c’è dietro o le persone reali che si è pensato di rappresentare.
I personaggi sono una creazione del regista e degli sceneggiatori. Ogni riferimento a fatti reali è sempre casuale, indipendentemente dalle intenzioni.

Comunque: domani vado in piazza dei Ciompi, nel negozio dove comprano cose vecchie; ho scritto domani, ci vado domani! – Totò: «Ieri ho detto che avrei pagato domani? Pago domani.»; il venditore di sigari: «Ieri avete detto domani. Domani è oggi»; Totò: «Oggi è oggi, domani è domani; niente chiacchiere! Ti pago domani» (da Signori si nasce, regia di Mario Mattoli, 1960).