18 maggio 2022 h 18.00)
Cinema Principe Firenze – Viale Giacomo Matteotti

Altri film del regista: // Marx può aspettare //
// Buongiorno, notte (in questo commento) //
Altro film sulle brigate rosse: // Dopo la guerra, regia di Annarita Zambrano //

Bellissima la scena finale di “Buongiorno, notte”, il film di Marco Bellocchio (2003) ispirato al caso Moro, liberamente tratto dal libro Il prigioniero di Anna Laura Braghetti e Paola Tavella.
Quando un film è ispirato a fatti realmente accaduti, il bello è in quell’avverbio: liberamente.
Un artista non s’impegna a ricopiare la realtà, ma dalla realtà o dai libri – anche dai sogni – trae ispirazione: poi rielabora liberamente.
Nella scena finale di “Buongiorno, notte” il regista immagina che Aldo Moro, interpretato da Roberto Herlitzka – aiutato da Chiara, la brigatista carceriera che, finalmente, ha ritrovato l’umanità perduta con l’adesione alle brigate rosse – all’alba esce dalla “prigione del popolo” e liberamente percorre la strada nella zona dell’EUR, in una Roma deserta, stringendosi addosso il cappotto che aveva quando l’hanno rapito.

Gli artisti, in particolare i registi, ci fanno sognare: Quentin Tarantino in Bastardi senza gloria (2009) ci fa sognare la fine anticipata della seconda guerra mondiale determinata da una ragazza ebrea che riesce a bruciare vivi – in un cinema di Parigi occupata – i capi nazisti, compreso Hitler. Per appiccare e mantenere il fuoco la ragazza utilizza le pellicole di celluloide, altamente infiammabili. Il cinema brucia il nazismo.
Al sogno che Bellocchio ci ha regalato in “Buongiorno, notte” a me manca un elemento e questa mancanza non mi rende pienamente soddisfatto (nell’immaginazione). No, non mi manca la fiammata del film di Tarantino, ma qualcosa di simile, no: di analogo. Dopo avere narcotizzato i complici e liberato Moro, la brigatista pentita (veramente pentita, non per finta o per avere sconti di pena, come, in molti casi, è accaduto nella realtà) chiama la polizia e fa arrestare i rapitori di Moro, gli spietati assassini della sua scorta. Questo mi manca.
Se il pentimento non porta a fermare i complici, a cercare di porre rimedio ai guai commessi, ad assumersi tutte le responsabilità, che pentimento è? Che pentimento è se porta a nascondersi dietro la ”dissociazione”? Dissociazione = “ho sbagliato ma non tradisco i compagni”. Se ti sei pentita devi avere capito che quelli non sono “i compagni”, sono solo dei volgari assassini che hanno trovato il modo di incanalare l’aggressività in un progetto assurdo.

Poco prima della liberazione del prigioniero a opera della brigatista pentita, Bellocchio mette in bocca al carceriere più fanatico di tutti la frase seguente che dimostra l’uguaglianza, come 5=2+3, tra i terroristi delle brigate rosse e i nazisti.
«Se lo ammazziamo dimostriamo che siamo i più forti perché nessuna pietà ci può fermare».
È una frase da nazisti.
Non so se Bellocchio l’abbia presa dal libro, che contiene la testimonianza di chi realmente c’era in quel covo, o da altri episodi.

Indipendentemente dalla frase – si possono fare e si sono fatte tante chiacchiere sull’album di famiglia (Rossana Rossanda) – i brigatisti rossi si sono comportati, nel caso Moro e in decine o centinaia di altri casi, per esempio con l’uccisione del fratello di Patrizio Peci, esattamente come i nazisti nell’eccidio delle Fosse Ardeatine e in decine, centinaia, di altre stragi.

Un altro esempio dell’uguaglianza tra il brigatista più fanatico e più dotato di autorità (i fanatici non hanno dubbi e, fatalmente, comandano) e un ufficiale delle SS di Himmler è il colloquio seguente tra Chiara, che vorrebbe salvare il prigioniero, e il brigatista talebano (per non ripetere l’aggettivo “fanatico”).

Chiara: «Avete deciso di ucciderlo?»
Brigatista talebano: «Sì, siamo tutti d’accordo»
Chiara: «Allora perché gli hai detto di scrivere?»
Brigatista talebano: «Per fargli passare il tempo»
Chiara: «Ma se anche il Papa si è inginocchiato! Ancora non vi basta?»
Brigatista talebano: «No»
Chiara: «Perché no? Ha fatto impressione anche a tanti compagni»
Brigatista talebano: «Hai letto bene? Tanta disponibilità ma senza condizioni. Liberarlo senza condizioni è una presa per il culo. Dovremmo liberarlo così, in cambio di niente?» Con tono più alto: «Chiara! Non ci vogliono riconoscere!»
Chiara: «Perché dovrebbero riconoscervi se voi non riconoscete loro?»
Altro brigatista fanatico: «Dici voi! Non sei anche tu dei nostri?»
Chiara: «Sì, non capisco perché dobbiamo ucciderlo. Niente mi convince che sia giusto farlo. Posso dirlo?»
Brigatista talebano: «Chiara! Questa è una prova per noi che non ci devono essere limiti umanitari nella guerra rivoluzionaria. Non esiste un’azione che non si può fare. Per la vittoria del proletariato è lecito anche uccidere la propria madre. Quello che oggi sembra assurdo, disumano, è in realtà un atto eroico che consiste nell’annullamento della nostra realtà soggettiva: il massimo dell’umanità. Noi dobbiamo ragionare così. Infatti sono tutti d’accordo: i compagni di base, la direzione: tutti d’accordo»

Questo colloquio – non so se sia vero, ma è verosimile e confortato dai fatti – è la dimostrazione definitiva, matematica, dell’uguaglianza “brigatisti rossi = nazisti”.
Si potrebbe obiettare: gli “ideali” erano diversi! Non ne sarei tanto certo: Stalin trovò il modo di accordarsi con Hitler nel ’39; oltre agli interessi (spartizione della Polonia), li accomunava l’odio per le “democrazie plutocratiche” (come diceva Mussolini).

Un’altra scena assai significativa, brevissima, verso la fine del film.
All’inizio dell’ultima cena, prima dell’esecuzione del prigioniero, i brigatisti si fanno il segno della croce: rispettano un’abitudine che una volta le mamme insegnavano ai bambini e che ora si è persa. Si tratta di giovani provenienti dalle file della gioventù comunista o della gioventù cattolica, dalle case del popolo e dalle parrocchie. Il fallimento di una cultura che ha prodotto il suo opposto.
Chi ha fallito? La famiglia, la scuola, la società. Però non trascuriamo la responsabilità individuale. I brigatisti rossi hanno fallito loro, personalmente, anche quelli che si sono tardivamente pentiti o dissociati.
Attribuire a una generazione le proprie responsabilità è un altro sotterfugio che alcuni usano per ritrovare un po’ della dignità perduta.
Noi non ci siamo fatti trascinare dai “cattivi maestri” o dai compagni imbecilli.

Con “Buongiorno, notte” Marco Bellocchio per la prima volta affrontava specificamente il caso Moro.
Ora ritorna sull’argomento con una serie televisiva e con un film in due parti: Esterno notte.

La serie (sei puntate) andrà in televisione in autunno; il film – uguale alla serie – nelle sale cinematografiche; la prima parte (le prime tre puntate) a partire dal 18 maggio, la seconda parte (le ultime tre puntate) dal 9 giugno.

Ottima soluzione, che consente anche a chi, come me, evita di guardare i film in televisione (solo quando è necessario), di non perdere una serie interessante. Se non avessero scelto questa soluzione sono sicuro che non mi sarei trovato puntuale davanti al televisore per sei appuntamenti: non credo di poter mantenere sei impegni di seguito in orari precisi (almeno due o tre volte farei molto tardi o li dimenticherei). Forse ai bei tempi, con una ragazza, sono riuscito a presentarmi a un appuntamento addirittura in anticipo per sei volte di seguito: ma erano altri tempi e c’era un’altra spinta.

Questa volta commento il film del 2003, non ancora Esterno notte, per due motivi: 1) non ho capito la necessità di questo secondo film, a distanza di quasi vent’anni, diluito in una serie televisiva 2) ho visto solo la prima parte; aspetto la seconda per capire che cosa ne penso.
Per ora, su Esterno notte, dico solo che non mi piace l’immagine che campeggia sulla locandina del film: una croce formata da rose rosse e un cuore di spine. Che cos’è? Un simbolo religioso? Che cosa vuole comunicarci?
Nella prima parte del film abbonda la simbologia religiosa, che raggiunge il ridicolo quando Paolo VI – usava il cilicio? Chi l’ha detto a Bellocchio? A me sembrava un intellettuale, non una specie di stregone masochista circondato da sadici – chiede al prete che lo assiste una croce più piccola per portarla nella via Crucis, perché non ce la fa con le più pesanti. L’assistente gli fa provare alcune croci di legno più piccole. Alla fine, forse annoiato dai tentativi infruttuosi (il Papa non ce la fa), gli porge una croce piccola ma di metallo, non di legno, che sembra più pesante delle altre. Umorismo involontario.
A giudicare dalla prima parte di Esterno notte, non si tratta della continuazione di un progetto, di un’idea. Ora c’è l’ambizione di rappresentare ogni aspetto del dramma: il mondo intorno, le premesse e le conseguenze, i vari personaggi, con un tono, un modo di raccontare, che spesso sfocia nel grottesco.

Sull’argomento “terrorismo anni ‘70” ho svolto un ragionamento nel commento al film Dopo la guerra (2017) su questo sito.

Buongiorno, notte (2003) mi piace perché non ha la pretesa di offrirci una tesi precostituita attraverso l’analisi dei fatti, scegliendone alcuni e scartandone altri. Non ci dà spiegazioni ma suggerimenti che sottopone alla nostra riflessione: possiamo accettarli o respingerli liberamente, senza il ricatto della presunta obiettività dei fatti.

Di spiegazioni conclusive abbiamo larga esperienza (le tasche piene) nei talk show: durante la pandemia i terrapiattisti novax, cultori delle verità nascoste, sono arrivati a raccontare che il “sistema” ci stava cambiando il DNA; in questi giorni della guerra di Putin in Ucraina i putiniani, finti néné (né con Putin né con la Nato), arrivano a invertire la posizione tra aggressori e aggrediti.

Sul caso Moro si sa molto (verità storica e verità processuale): i processi sono finiti, molti libri sono stati scritti sull’argomento.
Il regista – vivaddio! – non si pone come un super esperto onnisciente che ci guarda come un guru, come un beppegrillo qualsiasi (l’elevato) attraverso lo schermo e ci spiega che le cose sono andate come dice lui: noi dovremmo solo assorbire e diffondere la sua tesi.

Nel film del 2003 c’è una ricostruzione abbastanza fedele degli ambienti, degli oggetti e dei volti dell’epoca. Ricordo bene gli anni settanta: i volti sono stampati nella testa; mi dà fastidio quando in un film che racconta una vicenda di quegli anni mettono attori che hanno la faccia dei ragazzi di oggi (un esempio? Est: Dittatura last minute, 2021, regia di Antonio Pisu, commento su questo sito).

Il regista ricostruisce l’ambiente con poche pennellate precise.

Leggevamo i giornali, le riviste, guardavamo la televisione, che invadeva le nostre case molto più di adesso (meno programmi, ma più incisivi); andavamo al cinema, alle manifestazioni, ai comizi. Non eravamo sommersi dalle immagini e dalle fake news come ora. I carcerieri di Moro, per avere notizie, corrono davanti al televisore ogni volta che sentono la sigla del telegiornale.

Bellocchio ricostruisce l’ambiente, ma non si preoccupa di utilizzare attori sosia dei personaggi. Roberto Herlitzka, che non assomiglia a Aldo Moro, dà un’interpretazione intima del presidente della DC, senza sforzarsi di imitarlo. In questo modo evita la parodia involontaria e quel povero vecchio maltrattato che vediamo sullo schermo è davvero uguale all’uomo “buono” – come disse Paolo VI – che ci è rimasto nella memoria.
Se a quelli della mia generazione avessero detto, negli anni settanta: «ricorderai per sempre con affetto il presidente della Democrazia Cristiana», saremmo scoppiati in una risata. È successo proprio questo.
Roberto Herlitzka ha reso perfettamente l’Aldo Moro che abbiamo nella memoria, l’uomo buono, il vecchio maltrattato che non esprime disprezzo per i suoi carnefici, neanche dopo che l’hanno condannato a morte.

In Buongiorno, notte il regista assume il punto di vista di una giovane brigatista, Chiara, l’unica donna tra i carcerieri di Moro.
Il personaggio sembra ispirato dalla “postina delle br”, Adriana Faranda, che portava a destinazione i farneticanti “comunicati” dei brigatisti, le fotografie, le lettere del prigioniero ai familiari, ai compagni di partito, al Papa, agli altri esponenti politici.

Nel film la brigatista non fa solo la postina delle br, fa anche la carceriera di Moro, con il quale ha un contatto limitato. Guarda il prigioniero attraverso lo spioncino che i brigatisti hanno inserito nella porta della prigione insonorizzata, con l’ingresso nascosto da una libreria. La prigione è ricavata dentro a una stanza. Ci entra solo un letto con un po’ di spazio davanti. Su quel letto il prigioniero siede quando è sottoposto all’interrogatorio da parte dei torturatori incappucciati (Moro non aveva segreti “politici” che potessero interessare i suoi aguzzini). Su quel letto il prigioniero è seduto quando gli leggono la condanna a morte sancita dal “tribunale del popolo”.

Qui c’è un altro suggerimento che io accetto in pieno: i terroristi delle brigate rosse misero Aldo Moro nella stessa condizione in cui si trovarono i condannati a morte della Resistenza italiana (Chiara si addormenta rileggendo il libro edito da Feltrinelli e ha un sussulto e un sogno, un incubo).

In realtà l’unica donna tra i carcerieri di Aldo Moro non fu Adriana Faranda ma Anna Laura Braghetti.
Il personaggio di Chiara è, dunque, un misto delle due o, forse, ha un generico riferimento con l’ampia galassia femminile delle brigate rosse. La trentina Margherita (Mara) Cagol, che all’epoca del sequestro Moro era già morta, mi è venuta in mente quando ho visto sullo schermo il sogno della neve sulle panchine: ho associato la neve a questa ragazza coraggiosa, forse sprovveduta, la prima brigatista, moglie di Curcio. Ho conosciuto l’ambiente da cui proveniva, alcune persone che la frequentavano quando studiava alla facoltà di Scienze Sociali di Trento. Che cosa l’avrà portata a quella scelta? Il desiderio di cambiare la società, eliminare l’ingiustizia? Fare un salto così drammatico, forzare la propria natura fino a diventare assassini per realizzare il “sol dell’avvenire”? Sono i guai della fede che elimina ogni dubbio.
Ai bambini si dovrebbe insegnare a dubitare.
I personaggi del film non hanno un riferimento preciso con i veri carcerieri di Aldo Moro. Invano si cercherebbe di identificarli (forse solo il talebano fanatico, il ragioniere del terrorismo che fa le domande col cappuccio in testa).

Il regista sceglie il punto di vista di una brigatista che nei 55 giorni della prigionia di Moro riflette e, alla fine, segue la sua coscienza: narcotizza i complici e salva il prigioniero. Purtroppo, questo non è realmente accaduto.